Essere Bambini nell'Antica Roma

Essere bambini nell’antica Roma non era molto diverso dall’esserlo in una società contemporanea, anzi era assai simile. Se il bambino o la bambina fossero appartenuti ad una famiglia agiata la ientaculum, ossia la colazione, sarebbe stata abbondate e a base, solitamente, degli avanzi della coena e quindi consistente in carne, formaggi, pane, focacce, marmellate, frutta e anche scodelle di latte e miele per addolcire il tutto. Se invece erano di estrazione più umile, non è da escludere che mangiassero poco o nulla. Nondimeno, dopo colazione i bambini si sarebbero riversati in strada a giocare con gli amici, mentre i figli degli aristocratici, almeno nel caso dei maschietti, è possibile che seguissero il padre al foro, così da imparare fin da giovanissimi gli aspetti della vita pubblica. I giochi dei bambini erano i più vari, tra cui si possono annotare il nascondino, la mosca cieca, il gioco delle noci, che consisteva nel colpire, a turno, dei bersagli formati a loro volta da noci emessi ad una certa distanza. Non solo, come suggerisce Marziale anche il cavalcare delle canne era diffuso, così come costruire piccole case ed immagino anche piccoli fortini, come tutti noi abbiamo fatto nella nostra infanzia. Infine, vanno menzionate le trottole, azionate da una cordicella e svariati giochi con le palle, che sappiamo potevano essere riempite di piume, di aria o di sabbia. Tra i giochi più praticati vi era quello che può essere considerato l’antenato della pallavolo, dal momento che si stendeva una corda tra due pali e i giocatori, sia maschi che femmine, si sistemavano da entrambe le parti. Un altro passatempo consisteva nel bloccare la palla, senza farla cadere e rilanciarla prontamente, nei fatti molti simile alla nostra palla prigioniera. Tuttavia, i due divertimenti appena descritti, erano solitamente praticati da ragazze e ragazzi, ma anche adulti e meno dai bambini, ma nulla vietava loro di cimentarsi in questo tipo di svaghi, solitamente svolti negli ampi spazi delle terme romane. Differente è il discorso riguardante l’harpastum, che sebbene venisse svolto con una palla, era uno sport a tutti gli effetti ed era alquanto violento. In ogni caso potete riprenderlo, visto che ne parlammo qualche tempo fa. Detto ciò, esistevano anche le bambole, un’invenzione antichissima e che si perde nel tempo, ma a Roma ne venivano fabbricate di davvero “tecnologiche”, solitamente in terracotta o legno, ma a volte anche in avorio, con gli arti snodabili e con le acconciature ed altri dettagli molto precisi che aiutano a stabilire l’epoca in cui è stata prodotta. Sono state trovate numerose bambole specialmente nelle tombe di bambine e ragazze. I bambini venivano considerati tali fino agli otto anni, età dalla quale si diventava “puer” come sosteneva Varrone e si iniziava ad andare a scuola o, sempre nel caso degli appartenenti alle classi più agiate, si incominciava ad essere seguiti da un insegnante “privato”. Nelle famiglie benestanti anche le bambine potevano imparare a leggere, scrivere e contare. Inoltre, va sottolineato il fatto che prima di questa fase, in casa veniva insegnata l’educazione, consistente nell’impartire ai figli, principalmente, la moderazione ed il rispetto. A partire dagli otto anni, come dicevo, i fanciulli incominciano ad andare a scuola e ricevere un’istruzione riconducibile a quella elementare. Ad eccezione dei bambini e delle bambine più ricche che avevano maestri personali, il resto delle famiglie romane pagava dei maestri che si occupavano di insegnare ad un gruppo di fanciulli l’alfabeto e quindi a leggere, a scrivere e a contare, ma anche un po’di diritto visto che imparavano a memoria, come era prassi fare, le leggi delle XII tavole. Ovviamente era prevista la pena corporale per i bambini distratti, ma d’altronde questo tipo di insegnamento era usato fino al secolo scorso. Di solito l’insegnamento avveniva ai margini di qualche strada poco affollata o di una piazza, ma poteva accadere che si tenessero in locali abbandonati. Le lezioni duravano sei ore a partire dall’alba, si prendeva come riferimento l’alba perché era un metodo chiaro per stabilire un momento preciso della giornata, visto che gli orologi come gli intendiamo oggi, non esistevano ancora, sebbene ci fossero più modi di stabilire l’ora. La maggior parte dei Romani non andava oltre la “scuola elementare”, dal momento che iniziava a lavorare nell’impresa di famiglia, magari una piccola bottega o in una tabernae. Seppur fosse un basso grado di istruzione, paragonato alla nostra epoca, permetteva alla società romana di avere livelli di analfabetismo relativamente bassi. Verso i dodici anni, i ragazzi che continuano a studiare, incominciavano a frequentare delle “scuole private” in cui si imparano la grammatica e la letteratura latina e greca. In tali lezioni però, il maestro, detto “grammaticus” doveva essere abile a toccare altre materie come l’astronomia, la musica, la matematica, la geografia…, in modo che i suoi allievi avessero una buona cultura generale. Tra le opere più studiate vi erano quelle di Omero, Ennio, Virgilio, Cicerone ed Orazio. Intorno ai quindici e sedici anni si passava alle lezioni di un “rhetor” che insegnava loro le regole dell’eloquenza, utilissime per la carriera politica che si apprestano ad intraprendere. Solitamente, gli esercizi si concentravano su monologhi in cui si analizzavano i pro e i contra di un determinato argomento, sostenendo magari il punto di vista di un personaggio illustre del passato. Un secondo esercizio era quello che vedeva contrapporsi due allievi sostenitori di due tesi contrapposte ed era molto importante per coloro che avessero intrapreso una carriera giuridica.

Fonte: Una Giornata nell’Antica Roma, Alberto Angela, Mondadori libri S.p.a., 2021, Milano.

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